Comunità energetiche europee

Comunità energetiche europee. Almeno metà degli abitanti dell’Unione europea, circa 220 milioni di persone, potrebbe arrivare a produrre energia rinnovabile per proprio conto nei prossimi anni abbattendo il prezzo della bolletta elettrica.

Inchiesta di Jaime D’Alessandro sulle comunità energetiche europee pubblicata su La Stampa del 26 ottobre 2022. Su ItalianaContemporanea il testo è rubricato nella pagina Energia, consta di 993 parole e richiede un tempo di lettura di circa 4 minuti e mezzo


Almeno metà degli abitanti dell’Unione europea, poco più di 220 milioni di persone. Ecco in quanti potrebbero arrivare a produrre energia da fonti rinnovabili per proprio conto nei prossimi anni, abbattendo se non azzerando del tutto la bolletta. Miracoli, a portata di mano, offerti dalle cooperative e comunità energetiche: gruppi di cittadini, aziende private e enti pubblici che si uniscono per costruire un impianto fotovoltaico, idroelettrico o eolico capace di alimentare abitazioni, industrie e servizi di una certa area. Energia a chilometro zero. In tempi di crisi come i nostri si tratta di un’opportunità che non andrebbe sprecata.  

“Non è la prima volta che l’Europa si trova ad affrontare un’emergenza simile”, fa notare Sara Tachelet, portavoce di ResCoop, associazione nata nel 2013 in Belgio che oggi rappresenta 1.900 cooperative energetiche di 22 Paesi, delle 3.600 oggi esistenti in Europa, e un milione e 200mila cittadini. “Basti guardare agli anni Settanta quando, in risposta allo shock petrolifero, i cittadini danesi respinsero il piano del governo di investire nel nucleare puntando invece su solare, eolico e teleriscaldamento e dando vita a centinaia di cooperative”.

L’associazionismo per la produzione di elettricità, dal quale poi sono nate più di recente le comunità energetiche, ha radici antiche e non necessariamente legate sempre alle rinnovabili. Alla fine dell’Ottocento, la corrente veniva prodotta da piccole centrali costruite nei pressi delle fabbriche e quella in eccesso era poi data al vicinato. All’epoca non esistevano ancora le reti centralizzate di distribuzione. Le prime cooperative risalgono quindi agli inizi dello scorso secolo o alla fine di quello precedente, alcune sopravvivono ancora oggi in Italia specie lungo l’arco alpino, benché siano realtà di peso soprattutto nel Nord Europa. Si va da quelle minute, sorte attorno a impianti di rinnovabili su piccola scala, in genere fotovoltaici, a quelle che hanno dimensioni imponenti come la belga Ecopower, che fornisce elettricità a 50mila case.

Come spiegano loro stessi, “convincere nuovi membri ad aderire è più facile una volta che hai il tuo primo progetto attivo e funzionante. Dai così subito l’opportunità di utilizzare questo modello alternativo”. Cosa che sembra essere accaduta a Girona, in Catalogna, dove la Som Energia conta su 77mila membri e gestisce 14 impianti fotovoltaici, una centrale idroelettrica e un impianto a biogas.

Alcune cooperative poi non limitano i loro investimenti alle rinnovabili, ma si occupano di efficienza energetica per ridurre i consumi dei propri iscritti. C’è poi anche chi vende l’elettricità in eccesso come la Enercoop in Francia o ha una propria rete di distribuzione come accade in Germania con la Ews Schönau.

Da anni invece, al di là di quelle esistenti, si è vietata la possibilità di fondare nuove cooperative ed è per questo che le comunità energetiche sono così importanti. L’idea è nata dal basso attorno al 2010 nelle associazioni ambientaliste europee e da federazioni come la stessa ResCoop grazie all’avvento dei pannelli solari. La spinta sostanziale viene però data nel 2018 con la direttiva europea che sancisce il diritto all’autoconsumo energetico approvata per bloccare iniziative dei singoli Stati contro il fotovoltaico. Nel 2015 il governo spagnolo di Mariano Rajoy, del Partito Popolare, aveva pubblicato il Regio Decreto 900/2015, con il quale si applicavano una serie di tasse e sovrattasse alle installazioni di rinnovabili per proprio consumo. Venne battezzata la “tassa sul sole“. Di qui l’articolo 21 della direttiva europea che dà potere ai consumatori consentendo loro un autoconsumo “senza restrizioni indebite e di essere remunerati per l’elettricità che immettono nella rete”.

Le comunità energetiche si distinguono dalle cooperative per un’organizzazione differente. O meglio, per la possibilità di potersi organizzare anche non avevando uno statuto di cooperativa.

Attualmente in Italia, secondo Legambiente, ci sono poco più di 20 comunità energetiche contro le 1750 della Germania, le700 danesi e le 500 olandesi. Alle quali, stando allo European Union’s Joint Research Center, vanno aggiunte le 420 della Gran Bretagna. Siamo indietro quindi, anche se nello studio del Politecnico di Milano, Electricity Market Report, la crescita potrebbe essere esponenziale: entro il 2025 c’è la possibilità di avere 40mila comunità energetiche capaci di alimentare un milione e 200mila case, 200mila uffici e 10mila piccole e medie imprese.

La European Community Power Coalition, RePower Eu, alla quale aderiscono quaranta realtà nate di recente, sta tentando di mettere in piedi una rete di comunità sul modello di quella delle cooperative di ResCoop. Nel frattempo, l’idea di una nuova produzione di energia decentralizzata e locale ha sedotto diverse persone. Patagonia, la compagnia di Yvon Chouinard passata nelle mani di un fondo per la protezione del Pianeta per volontà del suo stesso fondatore, un anno fa ha realizzato un cortometraggio di mezz’ora intitolato We the Power. The Future of Energy is Community-Owned che potete trovare online, dedicato proprio a questa rivoluzione e alle sue implicazioni.

“L’unico modo per guardare avanti è decentralizzare sempre di più, produrre e consumare più energia a livello locale con fonti come il solare e l’eolico e aumentare lo stoccaggio e le soluzioni intelligenti per una gestione efficiente dell’energia”, ha spiegato di recente Gonçalo Mendes, ricercatore nel campo dei sistemi energetici presso la Lut University in Finlandia e parte del gruppo che sta lavorando al progetto finanziato dalla Commissione europea Greta, acronimo di Green Energy Transition Actions. Ne fa parte anche l’area Pilastro di Bologna e si basa sul concetto di “cittadinanza energetica”: significa che i cittadini partecipano attivamente alle azioni per raggiungere la neutralità climatica, dall’energia rinnovabile ai veicoli elettrici, fino alle comunità e alle cooperative.

“Entro il 2050, oltre l’80% delle famiglie dell’Unione Europea potrebbe diventare un attore attivo”, spiega la dichiarazione di intenti di Greta Thunberg. “Ciò comporterebbe che le famiglie producano energia rinnovabile, adeguino il loro consumo di energia e immagazzinino elettricità verde per essere gestite in modo ottimale a livello locale”.

O, per dirla con le parole di Lurian Klein, della portoghese Cleanwatts che si occupa di soluzioni per ottimizzare i consumi, stiamo parlando di soluzioni “molto più accessibili, democratiche, collaborative e giuste rispetto al mercato dell’energia”.

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