Cortina di ferro

Cortina di ferro. Editoriale di Domenico Quirico su La Stampa del 1 giugno 2022. In ItalianaContemporanea è rubricato nella pagina “Ucraina“, dedicata alla guerra della Russia contro l’Ucraina.


Bisognerà che qualcuno osi, che risillabi il folgorante riassunto che Churchill scandì a Fulton nel 1948: una cortina di ferro si è allungata sull’ Europa… Perchè questo è quanto si sta ogni giorno apparecchiando nelle pianure insanguinate di Ucraina. L’improvviso risveglio di una memoria formicolante di ombre. La guerra in queste ore è ancora movimento, fragore e notizie, i russi stringono la morsa su quanto resta ucraino del Donbass, si resiste “strada per strada’’ che è sempre la vigilia della resa, su altre tragiche Mariupol diluviano schegge. Ma tra poco i soldati di Putin domineranno tutto il loro sciagurato panorama di rovine. Poi i due eserciti esausti si attesteranno per respirare, per riorganizzarsi, colmare gli arsenali vuoti, schierare le nuove armi. Sul terreno arato dalla guerra si allungheranno, visibili dall’alto come una lunga cicatrice le trincee, le postazioni fisse, l’artiglieria ben mimetizzata, le strade per i rifornimenti. Quelli che erano villaggi e cittadine animate e ora sono rottami diventeranno tane per i cecchini e le incursioni delle pattuglie nella terra di nessuno. I civili spariranno come una specie estinta, la natura inghiottirà i campi e le fattorie isolate di questa terra torturata e tormentata. Lungo la nuova cortina di ferro che taglierà in due l’ucraina fino al Mar nero scenderà il silenzio lugubre delle terre senza pace. Ogni tanto sarà interrotto dal fracasso delle artiglierie, la frontiera fredda per qualche ora o giorno tornerà rovente. Un falso allarme, una provocazione per saggiare la reazione del nemico. Poi la tregua di fatto, senza accordi scritti tornerà inquieta, provvisoria, gonfia di rancore. Per anni. Questa guerra sospesa ha contorni familiari, precisi. Esiste.

Basta ricordare quanto accadde tra arabi e israeliani dopo la fulminante vittoria ebraica del 1967, dal canale di Suez alle alture del Golan siriano, Quneitra città morta, il Sinai irto di cannoni. Una guerra non guerra che durò in una alternarsi di immobilità e guizzi fino al conflitto successivo nel 1973. Il Donbass sarà il punto più delicato della nuova frontiera tra i blocchi che scenderà dal mar Baltico lungo la Bielorussia e l’est dell’Ucraina annesso o consegnata a qualche Lukashenko locale fino al Mar Nero. Nel resto del mondo in Asia e in Africa le linee d’urto saranno più mobili e incerte, a seconda del risultato delle guerre per procura tra i due blocchi e al fluido intersecarsi di regimi e alleanze.

A fissare come permanente lo scontro tra Occidente e Eurasia concorrono mille segni: né Ucraina né Russia sono disponibili a rinunce territoriali o ideologiche. L’effetto sanzioni e la speranza di una rivolta antiautoritaria a Mosca, settimana dopo settimana, restano ipotesi. Gli ucraini dopo gli immensi sacrifici sopportati, i morti e le distruzioni non accetteranno mai una trattativa con colui che li ha aggrediti, o una pace senza riparazioni. E nessun leader occidentale neppure Biden e Johnson da cui dipendono per la resistenza militare, può costringerli a rinunce sopravvivendo politicamente. Ammetterebbe il tradimento e la sconfitta davanti a Putin.

In realtà i due blocchi, rassegnati e consapevoli, si stanno già organizzando per il nuovo scenario. Le sanzioni che per il diritto internazionale dovrebbero essere uno strumento temporaneo, in realtà sono disegnate per un futuro economico in cui la Russia non esisterà più come interlocutore per la fornitura di materie prime o come mercato per investimenti. E a Mosca e a Pechino dove lo hanno compreso benissimo a loro volta replicano organizzando un mercato alternativo, autarchico come era l’economia dei Paesi socialisti negli anni Cinquanta e Sessanta. Forse il vero nome della nuova Cortina di ferro è deglobalizzazione. 

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