L’Occidente e il suo futuro

La fragilità delle democrazie: il futuro dell’Occidente esiste solo se non cede alla tentazione totalitarista. Joe Biden e Mario Draghi credono nella tenuta dei sistemi liberi. I cinesi esclusi attaccano: «I politici americani sono agenti delle lobby».

Cronaca di Gianni Riotta pubblicata su LaStampa del 10 dicembre 2021. Su ItalianaContemporanea è rubricata nella pagina Digitale e democrazia


La democrazia scivola indietro e le nostre scelte ne determineranno il futuro. Lasceremo che arretri o avremo la visione e il coraggio di guidare in avanti progresso e libertà umane? Ecco la sfida decisiva, la democrazia non è uno stato, ma un’azione»: con queste parole, citando il motto di Abraham Lincoln sul campo di battaglia di Gettysburg nel 1863, “Governo del popolo, dal popolo, per il popolo”, il presidente americano Joe Biden ha aperto ieri il Summit delle democrazie. Concepita dal compianto senatore repubblicano John McCain come Caucus, comitato, dei paesi liberi alle Nazioni Unite, l’idea di un vertice contro il totalitarismo è stata ripresa da Biden nei giorni cupi di gennaio, quando il Congresso Usa fu preso d’assalto dai golpisti trumpiani. Davanti all’offensiva del leader del Cremlino Vladimir Putin, al confine dell’Ucraina, e del presidente cinese Xi Jinping, con l’assedio a Taiwan, Biden spera che una riscossa morale delle democrazie vinca la partita del “soft power”, rendendo le società aperte più affascinanti del totalitarismo.

L’impresa non è semplice. La reazione cinese è stata furiosa, «Il vertice è una buffonata, l’America non è una democrazia, i cinesi la detestano, i politici Usa sono agenti delle lobby» ha detto con sprezzo Tian Peyan, del Comitato Centrale del Partito Comunista, mentre un analista russo taglia corto su un quotidiano cinese «È come se la tenutaria di un bordello facesse la predica alle educande». Gli ambasciatori di Pechino e Mosca, Qin Gang e Anatoly Antonov, in un raro documento a doppia firma, chiedono la fine «della diplomazia dei valori» e un confronto centrato solo sugli interessi, come la Cina ha fatto lo scorso week end, varando il suo Forum Internazionale della Democrazia, ospitati 120 paesi e un libro bianco del capo della propaganda Huang Kunming: «La Cina è una democrazia che funziona, mira ai risultati», i sistemi occidentali sono inefficienti. Sulla rivista The Atlantic la saggista Anne Applebaum è pessimista, «nel XXI secolo i cattivi stanno vincendo», le dittature prevalgono sulla libertà.

Il presidente Biden è cosciente di quanto l’immagine del suo Paese sia precipitata sotto l’amministrazione Trump, anche in Europa al 20%, risalendo intorno al 60% adesso (fonte Pew Institute), e sa che le immagini da Guantanamo, Kabul, con le milizie armate in strada, le leggi per ostacolare il diritto di voto delle minoranze seminano scetticismo sul “sistema americano”. Ha fatto dunque autocritica: «Qui, negli Stati Uniti, sappiamo meglio di tutti che rinnovare la nostra democrazia e rafforzare le istituzioni democratiche richiede sforzi costanti», promettendo interventi per eliminare le tagliole contro il voto degli afroamericani.
Il summit ha suscitato però polemiche, se il no a Russia e Cina lascia fuori capitali autoritarie non sono stati invitati anche alleati di Washington, Turchia e Singapore, oltre a un paese UE, l’Ungheria. Presenti invece Iraq, Angola, Kenya, Serbia, Pakistan, il cui status sui diritti civili è controverso. Biden non ha avuto dubbi, e si è presentato, ieri e oggi, conclusioni affidate alla vicepresidente Kamala Harris, davanti al megaschermo con le faccine dei leader ospiti.

I commentatori europei e italiani simpatizzanti del presidente Putin irridono la due giorni, persuasi che Biden stai cercando di distrarre dal crollo nei sondaggi che lo affligge, fiduciosi che la Realpolitik di Mosca e Pechino prevarrà. Ma il presidente Usa non è idealista sognatore, la sua visione della diplomazia si è temperata in decenni al Senato, ogni successo da negoziarsi, la battaglia egemonica fatta da compromessi, piccoli passi. Ha letto il Rapporto Harvard che teme il prossimo sorpasso tecnologico della Cina sugli Stati Uniti, è cosciente della pressione economica di Xi Jinping sui paesi vassalli e vuol tornare ad offrire una immagine positiva dell’America. Userà la leva delle sanzioni, la legge Magnitsky, dedicata al dissidente russo morto in carcere per aver denunciato il regime, contro gli oligarchi cinesi e russi che violano i diritti civili.

Tra i primi ha parlato ieri il premier italiano Mario Draghi, che Biden considera tra gli amici migliori di Washington, e che ha voluto, di persona, informare dopo il vertice con Putin sulla guerra in Ucraina, la scorsa settimana, privilegio riservato a Gran Bretagna, Germania e Francia. Draghi ha contestato la premessa che le democrazie siano disfunzionali, citando la reazione italiana alla pandemia Covid-19: «La pandemia ha rappresentato una delle principali sfide alle democrazie, abbiamo dovuto bilanciare le libertà individuali con le misure di sicurezza e garantire prosperità in un momento di forte recessione. Fino ad ora siamo stati all’altezza del compito. L’esperienza dell’UE offre un ottimo esempio della resilienza delle democrazie. Nei giorni più bui della crisi abbiamo lanciato Next Generation EU, un programma di riforme e investimenti da 750 miliardi di euro finanziato attraverso prestiti congiunti. Abbiamo scelto di restare uniti e condividere collettivamente i costi della ripresa. Abbiamo trasformato la pandemia in un’opportunità per invertire le disuguaglianze di vecchia data, migliorare la sostenibilità e favorire l’innovazione».

Biden e Draghi concepiscono pragmaticamente politica e democrazia, non sono idealisti, si fidano della capacità di correggersi dei sistemi liberi come vantaggio strategico sui sistemi monolitici, e vogliono difenderla esponendone i vantaggi. Una testimonianza in tal senso, a sorpresa, è venuta dalla scrittrice C. Pam Zhang, autrice del romanzo Quanto oro c’è in queste colline (tradotto da 66th and 2nd): nata in Cina, 31 anni, ora cittadina Usa, a chi le chiede alla fiera dei libri di Roma come viva le due grandi potenze della sua identità, replica «Mi sento americana, perché gli Stati Uniti possono criticarli e la critica è sempre un atto d’amore».

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