La scuola schiava delle sue inefficienze

Corsivo di Paola Mastrocola sulla questione dell’Esame di Stato 2022, al terzo anno scolastico investito dall’epidemia di Covid-19. Il testo è stato pubblicato su LaStampa del 9 febbraio 2022 e in ItalianaContemporanea è rubricato nella pagina L’italiano a scuola. Tempo di lettura ⏱ 3′


Tutti compatti a protestare contro le prove scritte alla maturità: i ragazzi scendono in piazza, i presidi si schierano al loro fianco e ora anche il Consiglio superiore della pubblica istruzione si proclama contrario alla decisione del ministro Bianchi: almeno il secondo scritto deve saltare alle superiori, e all’esame di terza media niente prove scritte d’italiano e matematica e niente colloquio di lingue straniere, anzi, meglio abolire l’esame stesso. La motivazione è che, dopo quasi tre anni scolastici a singhiozzo tra Dad e quarantene, questi ragazzi non sono in grado di sottoporsi alle prove tradizionali.Qualcuno si è accorto che si tratta di una ammissione di inadempienza e inefficacia senza pari? Un’autoaccusa, una sorta di plateale confessione: è come se la scuola dicesse che non ha fatto scuola per due anni, se ora accetta che i ragazzi si dichiarino impreparati a sostenere uno scritto di latino o di matematica. 

Giustificabile? Non so. Certo, lo sapevamo che la pandemia ha costretto a una scuola rimediata e sconfortante. Ma fino a questo punto? Allora abbiamo lasciato aperte le scuole per che cosa? Abbiamo tenuto i ragazzi appesi a un video per due anni cinque ore al giorno (seppure a intermittenza) per non insegnare loro nulla? Se non stava funzionando, dovevamo dirlo prima, e non aspettare che l’annuncio del ministro sulle due prove finali scatenasse l’inferno. Dovevamo correggere la direzione, inventare un altro modo di far scuola (per esempio fare meno videolezioni e insegnare ai ragazzi a studiare anche scollegati e da soli, magari dedicando a ciascuno di loro uno spazio di verifica, un colloquio costante e individuale). 

Se non stava funzionando, i ragazzi per primi dovevano denunciarlo, scendere in piazza almeno un anno fa a dire: ehilà, guardate che noi non stiamo imparando niente, volete darcelo o no uno straccio di istruzione? Perché protestano solo ora e, solo perché spaventati dalle prove scritte? 

Credo che dovessimo, tutti noi cittadini, essere informati prima del fatto che in due anni i nostri ragazzi hanno fatto sì e no quattro versioni di latino e due temi, così come ora ci rivelano alcuni degli studenti in piazza. C’era qualcuno a verificare che agli studenti fosse assicurata almeno la trasmissione di quelle conoscenze di base che avrebbero consentito loro di affrontare serenamente la prova finale, sulla quale, tra l’altro, sarà rilasciato loro un titolo di studio? Che cosa certificheranno i titoli di studio che rilasceremo quest’anno? Il falso? E come potranno affrontare il mondo del lavoro o il proseguimento degli studi questi ragazzi falsamente certificati? 

Oppure le cose non stanno così? Perché gli insegnanti non difendono il loro operato? Non credo proprio che la maggioranza di loro abbia lavorato poco, così come sono convinta che molti studenti abbiano studiato in modo più che degno. Certo, con grande difficoltà, disagio e tristezza, ma hanno comunque lavorato. E cosa dovrebbero dire ora, se verranno privati dell’occasione di veder premiato il loro impegno? È possibile che chi ha lavorato bene voglia esser messo alla prova, alla fine del suo corso di studi. Invece questa generazione uscirà indistintamente con un marchio d’infamia, se le verrà negato un esame serio: il mondo del lavoro ne terrà conto. Virus o non virus, Dad o non Dad, non credo ci saranno sconti, o alibi. 

Insomma, o hanno ragione i ragazzi a rifiutare gli scritti, e allora abbiamo davvero dato loro una scuola inadeguata e inutile; oppure abbiamo fatto tutto sommato una buona scuola, e allora i ragazzi non hanno scuse e dovrebbero accettare le prove scritte. Delle due l’una, non si scappa. Se aboliremo gli scritti, sarà da parte della scuola un’ammissione di colpa. Se li manterremo, sarà perché crediamo di aver fatto comunque un discreto lavoro, e anche perché confidiamo nella forza dei nostri giovani, capaci di affrontare – a diciannove anni, dopo tredici di studio – una prova. Noi, ben consapevoli del difficile momento che ci tocca vivere, li ammireremo molto se non si vorranno sottrarre

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