La fine dell’homo faber

La fine dell’homo faber. Liberi dal lavoro. Un breve saggio di Maurizio Ferraris presentato a “Ethos. Festival dell’etica pubblica” ( Roma 6-8 maggio 2022). Il testo è stato pubblicato su LaStampa del 7 maggio 2022.

Su ItalianaContemporanea è pubblicato nella pagina “Lavoro e felicità“. Il testo consta di 1.060 parole e richiede un tempo di lettura di 4 minuti circa.


Quest’anno il primo maggio si è focalizzato su casi individuali e tragici, le morti sul lavoro, che dipendono dalla morte del lavoro, non più fenomeno di classe e di massa, ma frammentato tra individui, particolarmente indifesi e precari. Perché a parità di funzioni una macchina è sempre più conveniente dell’umano: non si stanca, non ha fame, non ha diritti e non muore. Le morti sul lavoro sono dunque una condizione destinata a scomparire, non si sa quando, visto che la storia e soprattutto la geografia hanno tempi lunghi, ma con una ragionevole certezza, visto ciò che è avvenuto sin qui. Se mio padre risorgesse a Torino oggi, concluderebbe che i torinesi hanno smesso di lavorare: la città che durante le canoniche ore di lavoro era deserta oggi è piena di gente apparentemente oziosa intenta a contemplare dei piccoli schermi e scribacchiarci qualcosa. E il suo stupore sarebbe pari a quello che gli esploratori provavano nei confronti dei nativi ai tempi delle scoperte geografiche: li descrivevano come fannulloni dediti a godere dei doni della natura perché erano in gran parte dei cacciatori-raccoglitori, ossia degli scioperati agli occhi di europei calati nel mito dell’homo faber. Un mito antico, e che alle nostre latitudini va oggi scomparendo.

In questa condizione post fabbrile abbiamo, da una parte, una maggiore disponibilità di beni garantiti dall’automazione, dall’altra una rarefazione dei lavori e dunque del potere d’acquisto. In questa condizione, il grande passaggio a Nord Ovest, il Graal della nostra epoca, è quello indicato con chiarezza da Salvatore Rossi (già direttore generale della Banca d’Italia) all’inizio di Indagine sul futuro, uscito poche settimane fa da Laterza: «Occorre un dispositivo che distribuisca istantaneamente ed equamente il sovrappiù di reddito di tutta l’economia, prodotto grazie all’automazione, a tutti i partecipanti al gioco economico». Il Graal, però, non pare a portata di mano. E Rossi sembra dubitare della «fantasticheria ingenua» di una umanità finalmente liberata dal giogo del lavoro grazie all’automazione. Ma davvero si tratta di una fantasia? O non è piuttosto una realtà bella e buona, con tutta la durezza e la spiacevolezza che la realtà porta con sé? Soprattutto, una realtà che ci ha colti in contropiede se, meno di cent’anni fa, Ernst Jünger vaticinava l’imminenza dell’epoca dell’universale lavoratore, partendo dall’esperienza della guerra di materiali che aveva trasformato lo stesso mestiere delle armi in un lavoro industriale. Trent’anni dopo, Foucault aveva fatto scalpore profetizzando la morte dell’uomo, che ovviamente non è avvenuta. Ma chi avesse avuto la ventura di vivere sino a oggi avrebbe assistito alla morte di un tipo particolare di uomo, l’homo faber, il lavoratore jüngeriano.
Ovviamente, non è che l’inizio della fine, come ci ricordano le morti sul lavoro. Più esattamente, è la fine dell’inizio, l’incipit di una transizione con cui conviene confrontarsi chiedendosi, prima di tutto, chi prenderà il posto dell’homo faber. Forse l’homo sapiens? È correre troppo. Niente della nostra esperienza ci conforta su questo punto, e consigliare a un rider soppiantato da un drone di riciclarsi in un lavoro creativo sarebbe una freddura di cattivo gusto: tanto varrebbe consigliargli di sostituire il pane con le brioche. Soprattutto, nel passare dal lavoro manuale e ripetitivo a quello intellettuale e creativo ci si incaglia nell’enorme inciampo del merito, su cui si è a giusto titolo soffermato Michael Sandel (La tirannia del merito, Feltrinelli 2021): il tentativo di porre rimedio, con la cultura, alle differenze naturali tra gli umani si traduce in una differenza ancora più insopportabile, perché creata dalla società, quella tra ricchi e poveri, che facilmente si camuffa nella differenza tra vincitori e vinti, e in un merito senza meriti, perché acquisito per via ereditaria. Ma non avrebbe neppure senso rimpiangere i beati anni della catena di montaggio: sarebbe come se nel Cinquecento si fosse maledetto il perfezionamento della navigazione a vela che gettava sul lastrico i galeotti.

Una condizione ideale, di fronte alla accresciuta produzione di beni determinata dall’automazione, sarebbe una crescita della domanda da parte dei consumatori. Ma se i consumatori sono disoccupati è il diluvio. Che fare? Per rispondere occorre porsi tre interrogativi. Primo: cosa rende possibile l’automazione? La registrazione delle forme di vita umana nel web. Le macchine devono comportarsi come umani (questa è l’automazione, l’abilitazione di una macchina ad agire come noi), e per farlo devono attingere al gran catalogo dell’umano che è il web. Secondo: qual è la sola cosa che non può essere automatizzata? Il consumo, che per centinaia di migliaia di anni scompariva come lacrime nella pioggia, mentre ora che è registrato rende accessibili, oltre all’automazione, gli inestimabili vantaggi economici della profilazione. Ultimo interrogativo: che cosa fa muovere questo immane apparato? L’automazione? Ovviamente no, le macchine, da sole, non vanno da nessuna parte, e il valore di una macchina e dei suoi prodotti deriva dall’apprezzamento e dal bisogno di un umano. Dunque il consumo, ossia l’umano, è l’alfa e l’omega dell’automazione (oggi) e dell’economia (da sempre).

Se le cose stanno così, restituendo all’umanità il valore che essa stessa produce, diviene possibile tanto alimentare l’automazione quanto sostenere il consumo. Come? Generando un Webfare, un Welfare digitale che incrementi il patrimonio che l’umanità produce sul web non solo attraverso una tassazione delle piattaforme, ma soprattutto con una capitalizzazione alternativa. Questa capitalizzazione e ridistribuzione umanistica deve essere compiuta non dallo Stato, bensì da corpi intermedi: banche, sindacati, cooperative. Immagino l’obiezione: come si fa a convincere le piattaforme commerciali a condividere la loro ricchezza? Semplice. Non c’è alcun bisogno di convincerle, visto che da loro non si tratta di pretendere soldi, ma dati, quelli che noi stessi produciamo e che le leggi europee ci autorizzano a richiedere alle piattaforme.
Il principio «da ognuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni» diventerebbe la legge economica fondamentale perché, sino a che le capacità sono state distinte dai bisogni, questi sono sempre passati in secondo piano, ma in un mondo completamente automatizzato proprio i bisogni, in quanto non sono automatizzabili, costituiscono l’unica capacità davvero essenziale, su cui costruire una politica che miri all’acquisizione di diritti sostanziali e non soltanto formali.

Chiusa senza rimpianto l’età dell’homo faber e dell’homo necans, dell’umano come appendice funzionale della macchina civile o militare, si aprirà la stagione dell’homo sapiens, o di qualcosa che gli assomiglia almeno un po’. E, come nel caso della creazione di una effettiva uguaglianza di possibilità tra gli umani, ciò che era un semplice auspicio potrà trasformarsi in promessa credibile.

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La fine dell'homo faber, secondo Maurizio Ferraris