Il grande libro del web

Il grande libro del web. Il web ha trasformato in scrittura ogni parte delle nostre vite. Il web è una grandissima macchina di registrazione. Il web contiene il grande capitale dell’umanità, un capitale che ha senso solo se acquista una sintassi, un ordine, un’interpretazione. Un breve saggio pubblicato su La Stampa del 23 maggio 2022 di Maurizio Ferraris.

In ItalianaContemporanea è rubricato nella pagina “Lavoro e felicità“.


Nel 1967, in un libro per molti versi profetico, Della grammatologia, Derrida azzardava una previsione: è possibile che si assisterà alla fine del libro come totalità organica di un tema o di un sapere, ma di certo questo non comporterà la scomparsa della scrittura. Se c’è un futuro dei libri, come possiamo constatare senza difficoltà nella nostra vita di tutti i giorni (e non se ne sono mai letti tanti come nei due anni di pandemia), è perché la seconda parte della profezia si è realizzata, e la prima no.

Supponiamo infatti che il Web non avesse trasformato in scrittura ogni parte delle nostre vite e comunicazioni. Allora, in una società in cui si dispone del telefono, della radio e della televisione non ci sarà più alcun bisogno di scrittura. Di questo abbiamo avuto prove empiriche: per decenni le lettere si sono diradate, anche gli scrittori usavano il telefono, e a maggior ragione coloro che scrittori non erano, e riservavano la scrittura di una lettera a funzioni solenni e rituali. Ma non è stato così. Il Web è una grandissima macchina di registrazione, che, ben lungi dal rendere meno necessaria la scrittura, ha creato un gigantesco archivio delle forme di vita umana in cui tutto è scritto, sia quello che intenzionalmente vogliamo comunicare (anche un vocale è scrittura, perché è ripetibile) sia quello che non ci sogniamo minimamente di produrre, la montagna di dati che fanno del Web l’enorme repositorio delle forme di vita umana.

Ora, conosciamo bene i caratteri della scrittura su Web, della scrittura espansa. Un susseguirsi di frasi che normalmente possiedono un senso, anche se magari accidentato, ma che il più delle volte sono l’espressione di uno stato d’animo. Il capitale semantico che si produce sul Web (da intendersi in questo caso principalmente come quello che si manifesta nei social e nei nostri scambi quotidiani) è in larghissima parte di questo tipo: disordinato, emotivo, con scopi dettati dal momento. Ancora più babelico è il senso che si manifesta nell’enorme quantità di documenti che, come ricordavo, produciamo senza nemmeno essere consapevoli di farlo, e che costituiscono il grande capitale sintattico dell’umanità, un capitale che ha senso solo se viene messo insieme (perciò lo chiamo «sintattico»), interpretato, analizzato. Questo capitale, che costituisce un enorme patrimonio dell’umanità di cui ora beneficiano, nella stragrande maggioranza dei casi, le sole piattaforme commerciali (ma non c’è motivo perché la situazione non cambi), potrebbe essere definito qualcosa come «grande libro dell’umanità», un po’ come Galilei parlava del «libro della natura» scritto in caratteri matematici?

In un certo senso sì, ma solo in un certo senso, perché, proprio come nel caso del libro della natura, il libro dell’umanità ha senso solo per chi lo indaghi avvalendosi di princìpi, di concetti e di scopi, mentre di per sé è solo una cacofonia. Ecco perché Galilei non si è limitato a mostrare il mondo, ma lo ha interpretato, e ha consegnato i risultati delle sue riflessioni in quelli che erano libri in senso non metaforico ma letterale. Lo stesso dovrà avvenire con il grande libro del Web, che attende ancora i suoi Galilei, Torricelli e Stahl, perché, contrariamente a quello che vuole una sciocca superstizione, nel momento in cui la vita umana può essere registrata nei minimi dettagli dai dati non si assiste affatto alla scomparsa della teoria. È vero il contrario: c’è più bisogno che mai di teoria, di comprensione, di schemi concettuali, di interpretazioni.

E questi hanno luogo nei libri, e non solo nella storia, nella filosofia, nell’economia o nella psicologia, ma anche in quel territorio che, nella difficoltà di definirlo con dei confini ben delimitati, si è convenuto di chiamare «letteratura». Certo, siamo tutti consapevoli del fatto che raramente si scrive un libro sapendo con chiarezza dove si vuole arrivare (diffidate sempre di chi vi dice «ce l’ho tutto in testa, devo solo trovare il tempo per scriverlo»). Siamo anche, dolorosamente, consapevoli, come autori o come lettori, del fatto che non sempre i libri mantengono la loro promessa di senso, e che si rivelano delle accozzaglie di idee o racconti mal disposti. Resta che l’ideale di un libro consiste nell’avere un capo, una coda e un corpo, ossia di rappresentare una totalità organica in cui ogni parte ha senso solo in quanto corrisponde a un disegno complessivo. Un disegno animato da un fine, da un desiderio di significare.

Non c’è alcuna ragione per credere che questo bisogno sia oggi meno forte di un tempo, o che in un futuro prossimo o remoto scomparirà. Non c’è ragione di credere che i nostri bisogni di senso e di comprensione possano essere soddisfatti interamente da quello che passa il Web. Anzi, il farsi avanti del Web ha provocato un fenomeno interessante, ossia la scomparsa dei romanzi decostruttivi e decostruiti: a che pro imbarcarsi in un viaggio più o meno joyciano nella confusione e nella complicazione quando la nostra vita pratica è già impegnata a disboscare una giungla di messaggi sibillini? A che pro cimentarsi in saggi di scrittura automatica quando i nostri telefonini vanno molto più lontano in quella direzione.

Ciò che invece non si può sostituire, ciò che i libri ci hanno assicurato, o almeno hanno provato a fare e, credo, continueranno a provare, è fornire un senso. Proprio quello che manca in quel testo senza fine che è il Web, uno spazio in cui, diversamente che nei vecchi romanzi, non si troverà mai la parola «fine». Una parola essenziale, che definisce il carattere proprio di un organismo, i suoi confini, e soprattutto il suo tendere verso qualcosa, ciò che non accade a nessuna macchina, che è appunto un mezzo senza fine. Una parola che nei vecchi libri, come ricordavo, si metteva in fondo, al femminile, ma che in libri ancora più vecchi si trovava al maschile: il fine.

Come dire (e come ripeto in questo pezzo di organismo che è un articolo, letteralmente un «piccolo arto»): ho conseguito il fine che mi ero proposto, dunque finisco qui. 

Guida alla lettura

La prosa del prof. Ferraris  è chiara e godibilissima. Ma è difficile per molti lettori ai livelli scolastici di base. In ItalianaContemporanea spesso misuriamo la leggibilità di un testo in relazione al livello scolare del lettore. Usiamo l’indice Gulpease per l’italiano messo punto da Tullio De Mauro e la sua équipe. Per essere leggibile proprio da tutti il testo deve raggiungere il punteggio 60/100. Provate a riscrivere il testo e miglioratene il punteggio attuale che è di 46/100. 

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