Dunkirk. Film di guerra o di sopravvivenza?

DUNKIRK, FILM DI GUERRA O DI SOPRAVVIVENZA? La sintesi tra autorialità e tecnologia rende il film di Nolan un’esperienza cinematografica dalla potenza unica. Recensione di Marco Castelli per Scrivere di Cinema di martedì 5 settembre 2017.

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Il molo: una settimana. Il mare: un giorno. L’aria: un’ora. Più che i vari personaggi sono questi tre elementi i veri protagonisti del kolossal Dunkirk del regista Christopher Nolan, che ripercorre l’operazione di salvataggio di trecentomila soldati dalle coste francesi a seguito della prima disfatta militare davanti alle truppe naziste. La vicenda è affrontata con tocco impressionistico più che didascalico, rendendo indefiniti i civili ed i soldati (i quali sembrano in molte riprese formiche o topi) e nascondendo i nemici dietro gli spari ed i volantini di propaganda: quello che viene proposto è più un film di sopravvivenza che un film di guerra.
Nel cancellare le personalità e le ragioni dei singoli, rendendo tutti solo comparse di singole scene d’una tragedia dal folle autore, le vicende e gli scenari devono la loro forte coesione meno alle intersezioni fra le singole storie che al costante ticchettio d’orologio che fa da base alla colonna sonora, e che rappresenta forse il vero nemico ed il vero protagonista.

Il regista inglese è d’altronde uso a svolgere delle riflessioni sul tempo, ed anzi tutti i suoi film più riusciti sono inestricabilmente correlati a questo elemento, analizzandone le più varie sfaccettature: come lo stesso si sviluppi nello spazio (la quinta dimensione di Interstellar), nel sogno (le scatole cinesi di Inception), nella memoria (l’amnesia di Memento). Il tempo per Nolan sembra essere un elemento fluido e malleabile, tuttavia sempre legato da un rapporto interiore che ne definisce la natura relativa ma non per questo meno inesorabile: è nel tempo, nei rapporti matematici che vengono analizzati e svelati, che si crea l’urgenza e l’intensità drammatica di questi lungometraggi.

Se nei suoi precedenti film il regista aveva lavorato soprattutto sull’arbitrarietà e sulla non linearità della percezione cronologica, in questa opera si ha una declinazione dell’elemento temporale nei diversi piani nei quali la storia è organizzata (la terra, il mare, l’aria). Con i soldati si vive infatti l’opprimente situazione di stasi, con le onde che riportano a riva le carcasse delle navi con i corpi di coloro che avevano provato ad allontanarsi, mentre sul mare il sentimento non è di attesa ma di lentezza, di una rincorsa verso qualcosa che non si sa cosa sia ma rispetto al quale si teme di arrivare in ritardo. In cielo, infine, la guerra di resistenza del pilota con il carburante è parallela se non alternativa a quella contro gli aeromobili nemici, nella perenne urgenza di virare un secondo prima del nemico per colpirlo alle spalle, per tornare verso casa.
È grazie a questa costruzione scalare dello spazio e del tempo che il regista riesce a dare l’idea del senso di straniamento e di confusione vissuti sul campo di battaglia, permettendo ad un film decisamente meno sanguinolento d’altri sullo stesso tema – uno su tutti Salvate il soldato Ryan – d’impressionare forse più a fondo gli spettatori.

Quanto di questo effetto destabilizzante – terminati i passaggi nei cinema e l’aiuto delle sontuose riprese in IMAX – potrà entrare nei salotti di casa e quanto continuerà la colonna sonora a rimpiazzare i dialoghi minimali – se non monchi – a seguito di una seconda visione, potrà chiarire se ci si trova davanti ad un capolavoro o ad un ottimo film capace di unire la prospettiva autoriale ad un grande sforzo tecnologico. Per il momento si tratta sicuramente un’esperienza cinematografica dalla potenza unica.

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