Primo Levi, l’officina dello scrittore a 35 anni dalla scomparsa. Dagli aggettivi alle metafore: le meraviglie linguistiche del grande autore che ha saputo inventare uno stile. Commento di Luca Serianni su LaStampa del 7 aprile 2022. In ItalianaContemporanea è rubricato nella pagina dedicata a Primo Levi.
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L’officina di Primo Levi. Primo Levi è entrato da qualche anno (non da moltissimo tempo, in verità) tra gli indiscutibili classici del Novecento italiano, tra i pochi che non temono il fatale passare degli anni e delle mode letterarie. La fortuna in particolare di Se questo è un uomo nella scuola è in gran parte legata − ed è giusto che sia così − al valore della tragica testimonianza di Levi sugli orrori della Shoah. Ma qui e altrove Levi non è mai solo un testimone; è anche un grande scrittore, che sa variare lo stile a seconda del testo, cambiandone di volta alcuni tipici connotati espressivi: monolinguismo/plurilinguismo, incidenza dei dialoghi rispetto al narrato, uso parsimonioso o largo di una risorsa tipica della scrittura letteraria come la similitudine.
Il secondo tempo di Se questo è un uomo è La tregua. La tragedia, ineliminabile, resta sullo sfondo ed emerge in primo piano l’irresistibile vitalità dei sopravvissuti, non tutti destinati a superare la prova, in lotta contro privazioni alimentari, malattie, incertezza sull’immediato futuro. In questo romanzo Levi può anche dispiegare una caratteristica che si impone a ogni suo lettore: l’ironia. La incontriamo fin dal primo capitolo, Il disgelo: i tedeschi – scrive il narratore − avranno avuto originariamente il programma di sterminare gli ebrei prima di abbandonare il Lager di Buna-Monowitz, ma il rapido volgersi della guerra a loro sfavore li indusse «a prendere la fuga lasciando incompiuto il loro dovere e la loro opera»: lo sterminio è, nella distorta ottica nazista, un dovere.
A differenza di altre opere leviane come La chiave a stella, con le sue incursioni nel piemontese e nel lessico settoriale, La tregua offre una lingua che è insieme di respiro classico e di scientifico nitore: Levi, come ebbe a dire una volta Cesare Cases, «era una réclame vivente del vecchio liceo classico» (e pensare che al Liceo D’Azeglio fu anche rimandato a ottobre proprio in italiano).
L’espressività del parlato compare davvero solo in un caso, nelle battute dell’ebreo romano Cesare, un personaggio per il quale l’autore prova una dichiarata simpatia: le parole della quotidianità polacche e russe vengono adattate e marcate affettivamente con una forma alterata : così il polacco ryba «specie di pesce» diventa ribbona, il russo kaša «piatto a base di miglio» diventa cascetta («Voi statevene con la vostra cascetta: io la gallina me la vado a cercare da solo»), il russo kuritsa «gallina» diventa curizetta.
C’è un settore privilegiato per entrare nell’officina di uno scrittore di forte educazione letteraria che si sforza di non essere letterario (nella Tregua è raro il ricorso a similitudini, per esempio): l’uso dell’aggettivo. Gli aggettivi, che compaiono spesso in serie, non sono mai decorativi, ma sfaccettano la realtà rappresentata, illuminandone gli aspetti diversi e talvolta contraddittori. Un paio di esempi, attinti ancora dal primo capitolo. Le parole dei soldati russi a cavallo sono «brevi e timide» (viene spontaneo il contrasto con le frasi pronunciate dai nazisti in Se questo è un uomo: altrettanto brevi, ma sprezzanti e aggressive). «Di fronte alla libertà ci sentivamo smarriti, svuotati, atrofizzati, disadatti alla nostra parte»: i primi tre aggettivi costituiscono una climax, cioè una progressiva intensificazione, e il terzo, atrofizzati, dà un’impronta scientifica, e comunque obiettiva, alla situazione rappresentata.
La personalità stilistica di Levi spicca ancor di più se la confrontiamo con quella di una grande scrittrice che a Torino passò gli anni dall’infanzia alla giovinezza: Natalia Ginzburg, che nel 1963, lo stesso anno in cui apparve La tregua, pubblicò Lessico famigliare e vinse il premio Strega. Ginzburg ha segnato, nel romanzo italiano, una linea alternativa rispetto a quella di Levi: una lingua volutamente priva di ogni risonanza letteraria, nutrita di parole comuni e misurata sul ritmo del parlato quotidiano. Un indicatore è costituito dalle forme verbali di seconda persona (indicativi o imperativi) di tre verbi di largo uso, venire, fare e andare, ovviamente forme tipiche del discorso diretto. Confrontando La tregua e Lessico famigliare i dati sono i seguenti: vieni un esempio in Levi, nove in Ginzburg; fai Levi tre, Ginzburg sette; vai Levi due, Ginzburg dieci.
Più in generale, l’escursione lessicale di Levi è ampia e varia. È facile accertarlo, confrontando La tregua con altri 99 romanzi apparsi tra 1947 e 2006 e consultabili attraverso un meritorio Primo Tesoro della Lingua Letteraria del Novecento, diretto da Tullio De Mauro (2007). Vediamo dieci aggettivi, non appartenenti alle duemila parole del lessico di più alta frequenza: alcuni sono indubbiamente ricercati (inconcreto è addirittura un hapax leviano); ma molti di essi dovrebbero appartenere al patrimonio linguistico di uno studente di scuola superiore. Sono alacre, frusto «consumato» o «ripetuto stancamente», insipiente, loico, negligente, omerico «grandioso», polito «levigato, affinato», prolisso in senso proprio «lungo», sismico «straordinario».
Parte di questi aggettivi, tra gli autori del Primo Tesoro, si ritrova, con tre occorrenze, in Landolfi, col suo gusto del fantastico e con la propensione per la parola rara (frusto, loico, polito), in Magris, che è anche un grande intellettuale (loico, omerico, prolisso), in Bellonci, amante delle ricostruzioni d’epoca (alacre, frusto, polito) e, con due esempi per ciascuno, in Eco, Arbasino, Banti.
Ma più significative sono le assenze. Nessuno dei dieci aggettivi che ho passato in rassegna compare in Calvino (presente con due romanzi nel Tesoro) e nessuno nella variegata ma fitta rappresentanza di scrittori che appartengono al, o risentono del, neorealismo (Pratolini, Vittorini, Pavese, Cassola) ovvero che perseguono, in tempi più vicini ai nostri, una lingua volutamente disadorna, modellata sui ritmi del parlato (come Ortese, Mastronardi, Cialente, Mazzucco, De Carlo, Di Lascia, Ferrante, Veronesi). Primo Levi sta davvero a sé, insomma: per le cose che ha da raccontare, prima di tutto, e per come le racconta.
Guida alla lettura
Il testo, oltre a Primo Levi nomina molti altri scrittori per confrontarli stilisticamente con Primo Levi stesso. Lavorando in coppia, individuate gli scrittori e scrittrici menzionati/e e compilate per ciascuno una Scheda Autore.